lunedì 2 luglio 2012

impresa ingiustamente privata aggiudicazione rivendica perdita incremento avviamento

In relazione alla richiesta delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, il Collegio richiama la conclusione giurisprudenziale secondo cui il concorrente a una gara d'appalto che non ha conseguito l'aggiudicazione per fatto dell'Amministrazione non ha diritto al risarcimento delle spese sostenute per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara,

atteso che queste restano a carico delle imprese sia in caso di aggiudicazione che di mancata aggiudicazione (da ult.: Cons. Stato, Sez. VI, 18.3.11, n. 1681).

Ciò perché tali costi di partecipazione (Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; n. 4435/2002), rilevano come “danno emergente” solo nell’ipotesi di illegittima esclusione, collegandosi alla pretesa del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili ma nell’ipotesi in cui l'impresa benefici del risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione) non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione alla gara, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione medesima.

Per quel che riguarda il mancato utile, il Collegio ritiene invece che lo stesso sia dovuto, ponendosi in diretto rapporto di causalità con l’illegittima revoca dell’aggiudicazione, ma non nella misura del 10% dell’importo rivalutato come richiesto dalla ricorrente.

La giurisprudenza maggioritaria in argomento, infatti, ha chiarito ormai che in tema di appalti pubblici, al fine di evitare che a seguito del risarcimento per mancata aggiudicazione il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire il contratto in contestazione, con la precisazione che, tuttavia, l'onere di provare (l'assenza del) l'”aliunde perceptum” grava non sull'Amministrazione ma sull'impresa, tenendo presente che tale ripartizione dell'onere probatorio muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull'”id quod plerumque accidit”, secondo cui l'imprenditore (specie se in forma societaria) — in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili — normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative che dalla cui esecuzione trae utili (Cons. Stato, Sez. VI, n. 1681/11 cit.).

Questo Tribunale sul punto ha ulteriormente precisato che in sede di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata aggiudicazione di una gara di appalto, il mancato utile nella misura integrale, nel caso di annullamento dell'aggiudicazione e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, spetta solo se quest’ultimo dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione, mentre, in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e, pertanto, in tale ipotesi deve operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura per l'”aliunde perceptum vel percipiendum” (Tar Lazio, Sez. II, 3.11.11, n. 8442).

Il Collegio, quindi, in assenza di prova siffatta da parte della ricorrente, ritiene equo liquidare una somma pari al 5% non dell’importo rivalutato, però, come prospettato dalla ricorrente, ma in relazione al ribasso del prezzo offerto dall’impresa (che, per la documentazione depositata in atti dall’Acea spa, risulta pari a euro 841.189,50) e quantificabile in euro 42.059,47.

 E’ conclusione giurisprudenziale condivisibile, infatti, quella secondo cui nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante, inteso come mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto, non deve essere calcolato utilizzando il criterio forfetario del 10% del prezzo a base d'asta, ma sulla base dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria (Cons. Stato, Sez. VI, 26.1.09, n. 357). A tale somma, però, deve riconoscersi un ulteriore 2%, per euro 16.823,78, a titolo di “danno curriculare” risarcibile. Infatti, come osservato da giurisprudenza che il Collegio condivide, l'interesse all’aggiudicazione di un appalto pubblico, nella vita di un operatore economico, va oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti, dato che alla mancata esecuzione di un'opera pubblica illegittimamente negata si ricollegano indiretti nocumenti all'immagine stessa della società, al suo radicamento nel mercato, all'ampliamento della qualità industriale o commerciale dell'azienda, al suo avviamento, cui aggiungere la lesione al rispetto della concorrenza, in conseguenza dell'indebito potenziamento di impresa concorrente che operava sul medesimo “target” di mercato e che è stata dichiarata aggiudicataria della gara.

Ne consegue che l'impresa ingiustamente privata dell'esecuzione di un appalto può rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come relativa all’immagine e al prestigio professionale, al di là dell'incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare ( Cons. Stato, Sez. VI, 1681/11 cit. nonché 11.1.10 , n. 20 ; 21.5.09 , n. 3144; 9.6.08, n. 2751 ; Sez. IV, 6.6.08 , n. 2680 ; Sez. V, 23.7.09 , n. 4594 ; Sez. V, 12.2.08, n. 491; Sez. IV, 29.7.08 , n. 3723 ; v. anche Cass. Civ., 4 giugno 2007, n. 12929 ).

A conclusione negativa deve invece pervenirsi per quel che riguarda il mancato ammortamento delle spese generali, richiamando la medesima ragione per la quale non si è convenuto con la richiesta di liquidare il 10% del mancato utile, dato che l’impresa non ha fornito la prova di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze per altri lavori, con la conseguenza che l’ammortamento richiesto ben può risultare già effettuato comunque in relazione ad altri lavori svolti.



Per quel che riguarda il danno ulteriore “curriculare” per mancato avanzamento SOA, il Collegio ritiene di concordare con le difesa dell’Acea spa, rilevandone la non risarcibilità, in quanto non risulta fornita in giudizio la prova dell’effettiva perdita di un livello di qualificazione già posseduta ovvero della mancata acquisizione di un livello superiore e che tali circostanze eventuali siano da porre in correlazione diretta con la mancata aggiudicazione (Cons. Stato, Sez. IV, 27.11.10, n. 8253).

Per quanto finora dedotto, quindi, in relazione alla mancata (o revoca dell’) aggiudicazione, deve accogliersi parzialmente la domanda risarcitoria nei confronti di Acea spa e condannarsi quest’ultima a corrispondere alla ricorrente quanto da lei richiesto a titolo di mancato utile per euro 42.059,47 (equitativamente sul 5% sul ribasso del prezzo offerto in gara, per euro 841.189,50), e a titolo di danno all’immagine e curriculare (equitativamente sul 2% del medesimo parametro), per euro 16.823,78. La somma totale pari ad euro 58.883,25, trattandosi di debito di valore perché risarcitorio dovrà essere rivalutata all’attualità, con interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza fino al soddisfo.

Passando ad esaminare le altre voci di danno che la ricorrente ritiene derivanti dall’iscrizione nel Casellario Informatico dell’Autorità di settore e dalla conseguente interdizione annuale ex art. 38 d.lgs. n. 163/06, il Collegio osserva che il criterio su cui individuare un parametro di riferimento sarebbe quello che si fonda sulla media degli utili percepiti in analogo periodo nell'anno precedente per gare con Enti pubblici (per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3981).

Nel caso di specie, però, manca del tutto tale prova, il cui onere era da ascriversi integralmente alla ricorrente ex art. 2697 c.c.

Non risultano infatti depositati in giudizio i bilanci della società negli anni precedenti e successivi all’interdizione annuale né altri dati idonei relativi all’indicazione degli utili percepiti negli anni immediatamente successivi e posteriori all’interdizione e derivanti da gare di appalto, quali risultanti dai dati generali utilizzati ai fini della quantificazione del reddito complessivo d'impresa per la dichiarazione dei redditi, commisurato al numero di gare svoltesi nell’anno alle quali l'impresa non ha potuto partecipare. Non appare sufficiente allo scopo, infatti, prendere a riferimento dieci gare svoltesi nell’anno ed affermare apoditticamente, come fatto dalla ricorrente, che avrebbe certamente ivi partecipato e vinto, non avendo quest’ultima neanche dimostrato di possedere i relativi requisiti in relazione alle singole leggi di gara che regolavano quelle fattispecie prese a riferimento.

Né può valere il richiamo al criterio della valutazione equitativa, dato che la giurisprudenza con cui il Collegio concorda ha chiarito che il difetto di prova dei danni patiti non è superabile mediante il ricorso al rimedio della liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 cod. civ. ove non sussista alcuna impossibilità o difficoltà di quantificare esattamente i pregiudizi subiti, ricadendo tutti gli elementi idonei a comprovare la consistenza degli stessi nella disponibilità della parte interessata (C.G.R.S., 7.11.11, n. 785).

Nel caso di specie era nella piena disponibilità della parte ricorrente depositare in giudizio la documentazione suddetta, per cui, in assenza della stessa, si potrebbe dedurre ugualmente in via presuntiva che gli utili della ricorrente non siano diminuiti, orientandosi la stessa verso altri mercati, né che abbiano subito detrazioni di sorta.

Per quanto dedotto quindi la domanda risarcitoria ulteriore, sotto i profili ora evidenziati, non può trovare accoglimento.

Tratto dalla sentenza numero 5920 del 27 giugno 2012 pronunciata dal Tar Lazio, Roma

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