venerdì 29 marzo 2013

riconosciuto 5% importo a base d’asta decurtato del ribasso del prezzo offerto dall’impresa

Per quel che riguarda il mancato utile, il Collegio ritiene che sia dovuto, ponendosi in diretto rapporto di causalità con l’illegittima aggiudicazione, ma non nella misura della differenza piena tra ricavi e costi diretti dell’esecuzione come richiesto dalla ricorrente.
La giurisprudenza maggioritaria in argomento, infatti, ha chiarito ormai che in tema di appalti pubblici, al fine di evitare che a seguito del risarcimento per mancata aggiudicazione il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell'illecito, va detratto dall'importo dovuto a titolo risarcitorio quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire il contratto in contestazione, con la precisazione che, tuttavia, l'onere di provare (l'assenza del) l'”aliunde perceptum” grava non sull'Amministrazione ma sull'impresa, tenendo presente che tale ripartizione dell'onere probatorio muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull'”id quod plerumque accidit”, secondo cui l'imprenditore (specie se in forma societaria) — in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili — normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili (Cons. Stato, Sez. VI, n. 1681/11 cit.).

Questo Tribunale sul punto ha ulteriormente precisato che in sede di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata aggiudicazione di una gara di appalto, il mancato utile nella misura integrale, nel caso di annullamento dell'aggiudicazione e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, spetta solo se quest’ultimo dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione, mentre, in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e, pertanto, in tale ipotesi deve operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura per l'”aliunde perceptum vel percipiendum” (Tar Lazio, Sez. III, n. 5920/12 cit. e Sez. II, 3.11.11, n. 8442).
Il Collegio, quindi, in assenza di prova siffatta da parte della ricorrente- che si limita solo ad enunciare apoditticamente che le risorse umane e materiali dell’impresa erano di fatto rimaste “inutilizzate o comunque fortemente sottoutilizzate” nel periodo corrispondente a quello di esecuzione del servizio in gara allegando una perizia con mera indicazione dei costi - ritiene equo liquidare una somma pari al 5% dell’importo a base d’asta decurtato del ribasso del prezzo offerto dall’impresa (che, per quanto dedotto dalla ricorrente e non contestato dall’Anas spa, risulta pari a euro 645.820,79), e quantificabile in euro 32.291,04. E’ conclusione giurisprudenziale condivisibile, infatti, quella secondo cui nelle procedure per l'aggiudicazione di appalti pubblici il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante, inteso come mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto, non deve essere calcolato utilizzando il criterio forfetario di una percentuale del prezzo a base d'asta, ma sulla base dell'utile che effettivamente avrebbe conseguito ove fosse risultata aggiudicataria (Cons. Stato, Sez. VI, 26.1.09, n. 357).
La misura del 10% invocata, infatti, non è più considerata come parametro automatico dalla giurisprudenza in applicazione analogica del criterio del 10% del prezzo a base d'asta ai sensi dell' art. 345, l. n. 2248/1865, All. F (Cons. Stato, Sez. V, 20.4.12, n. 2317).
Ciò sia perché tale criterio di liquidazione si richiama a disposizione in tema di lavori pubblici che riguarda un istituto specifico, quale l'indennizzo dell'appaltatore nel caso di recesso dell'Amministrazione committente, sia perchè, quando impiegato al mero fine risarcitorio residuale in una logica equitativa, conduce tuttavia, almeno di regola, all'abnorme risultato che il risarcimento dei danni finisce per essere, per l'imprenditore, più favorevole dell'impiego del capitale: con il che si crea la distorsione per cui il ricorrente non ha più interesse a provare in modo puntuale il danno subìto quanto al lucro cessante, perché presumibilmente otterrebbe meno di quanto la liquidazione forfetaria gli consentirebbe (Cons. Stato, Sez. VI, 21.5.09, n. 3144).
Il richiamato criterio del 10% non può quindi essere oggetto di applicazione automatica ma è sempre necessaria la prova rigorosa, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria, anche ai sensi dell’art.124 c.p.a., che prevede, in assenza di dichiarazione di inefficacia del contratto, il risarcimento del danno per equivalente subìto, a condizione, tuttavia, che lo stesso sia stato "provato" (Cons. Stato, Sez. V, n. 2317/12 cit.).
Come detto, nel caso di specie nessuna prova è stata fornita dalla ricorrente in ordine ad un proprio verosimile utile eccedente la soglia equitativa del 5 % né sono stati allegati dati circostanziati in merito e appare utile richiamare la conclusione giurisprudenziale secondo cui non va dimenticato che, ai sensi dell'art. 1227 c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno e nelle gare di appalto l'impresa non aggiudicataria, ancorché proponga un ricorso e possa ragionevolmente confidare di riuscire vittoriosa, non può mai nutrire la matematica certezza che le verrà aggiudicato il contratto, atteso che sono molteplici le possibili sopravvenienze ostative, per cui non costituisce normalmente condotta diligente quella di immobilizzare tutti i mezzi d'impresa nelle more del giudizio nell'attesa dell'aggiudicazione in proprio favore, essendo invece ben più razionale che l'impresa si attivi per svolgere nelle more altre attività, procurandosi prestazioni contrattuali alternative dalla quali trarre utili (Cons. Stato, Sez. V, n. 2317/12 cit.).
Ne consegue, quindi, che la somma ritenuta equitativamente idonea a ristorare il mancato utile della ricorrente nel caso specifico sia pari a euro 32.291,04, secondo quanto sopra evidenziato.
A tale somma, però, deve riconoscersi un ulteriore 2% sul valore dell’appalto (che risulta di euro 770,945,20) per euro 15.418,90 a titolo di “perdita di qualificazione” risarcibile.
Infatti, come osservato da giurisprudenza che il Collegio condivide, l'interesse all’aggiudicazione di un appalto pubblico, nella vita di un operatore economico, va oltre l'interesse all'esecuzione dell'opera in sé e ai relativi ricavi diretti, dato che alla mancata esecuzione di un'opera pubblica illegittimamente negata si ricollegano indiretti nocumenti all'immagine stessa della società, al suo radicamento nel mercato, all'ampliamento della qualità industriale o commerciale dell'azienda, al suo avviamento, cui aggiungere la lesione al rispetto della concorrenza, in conseguenza dell'indebito potenziamento di impresa concorrente che operava sul medesimo “target” di mercato e che è stata dichiarata aggiudicataria della gara (Tar Lazio, Sez. III, n. 5920/12 cit.).
Ne consegue che l'impresa ingiustamente privata dell'esecuzione di un appalto può rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al “curriculum professionale”, da intendersi anche come relativa alla qualificazione professionale, al di là dell'incremento degli eventuali specifici requisiti di qualificazione SOA e di partecipazione alle singole gare ( Cons. Stato, Sez. VI, 1681/11 cit. nonché 11.1.10 , n. 20 ; 21.5.09 , n. 3144; 9.6.08, n. 2751 ; Sez. IV, 6.6.08 , n. 2680 ; Sez. V, 23.7.09 , n. 4594 ; Sez. V, 12.2.08, n. 491; Sez. IV, 29.7.08 , n. 3723 ; v. anche Cass. Civ., 4 giugno 2007, n. 12929 ).
In sostanza, l'esistenza di tale componente di danno può ritenersi “in re ipsa”, perchè insita nel fatto stesso dell'impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall'esecuzione dell'appalto in controversia nell'ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare e, in merito, la giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. V, 19.11.12, n. 5846) ha pure evidenziato che il soggetto economico non può dirsi gravato, a questo proposito, da alcun particolare onere probatorio (Cons. Stato, Sez. V, 6.7.12, n. 3966 del 6 luglio 2012, . n. 3966, 3.5.12, n. 2546 nonché Sez. IV, 27.11.10, n. 8253).
In relazione, invece, alla richiesta delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, il Collegio richiama la conclusione giurisprudenziale secondo cui il concorrente a una gara d'appalto che non ha conseguito l'aggiudicazione per fatto dell'Amministrazione non ha diritto al risarcimento delle spese sostenute per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, atteso che queste restano a carico delle imprese sia in caso di aggiudicazione che di mancata aggiudicazione (da ult.: Cons. Stato, Sez. VI, 18.3.11, n. 1681). Ciò perché tali costi di partecipazione (Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; n. 4435/2002), rilevano come “danno emergente” solo nell’ipotesi di illegittima esclusione, collegandosi alla pretesa del contraente a non essere coinvolto in trattative inutili ma, nell’ipotesi in cui l'impresa benefici del risarcimento del danno per mancata aggiudicazione (o per la perdita della possibilità di aggiudicazione), non vi sono i presupposti per il risarcimento per equivalente dei costi di partecipazione in questione, atteso che mediante il risarcimento non può farsi conseguire all'impresa un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall'aggiudicazione medesima (Tar Lazio, Sez. III, n.5920 /12 cit.).
A conclusione negativa deve pure pervenirsi per quel che riguarda il mancato ammortamento delle spese generali, dato che, come detto, l’impresa non ha fornito la prova di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze per altri lavori, con la conseguenza che l’ammortamento richiesto ben può risultare già effettuato comunque in relazione ad altri lavori svolti.
Per quanto finora dedotto, quindi, deve accogliersi parzialmente la domanda risarcitoria nei confronti di Anas spa e condannarsi quest’ultima a corrispondere alla ricorrente le somme di euro 32.291,04, a titolo di mancato utile, e di euro 15.418,90, a titolo di danno per perdita di qualificazione e “chances” (quest’ultima intesa nel senso prospettato dalla ricorrente, vale a dire come mancata possibilità di spendere in altre gare i requisiti tecnico-economici conseguenti all’esecuzione dell’appalto), secondo i parametri sopra individuati.
a cura di Sonia Lazzini

 sentenza   numero 2358  del 5 marzo 2013 pronunciata dal Tar Lazio, Roma

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