Confermandosi dunque fondata la pretesa risarcitoria dell’appellante, si può addivenire alla precisa quantificazione del risarcimento accordabile all’avente diritto.
Il risarcimento deve essere parametrato, sotto il profilo del lucro cessante, alla previsione di utile dichiarata dalla stessa RICORRENTE in sede di offerta, che assommava al 4 % del valore del contratto (in tal senso si veda la memoria della stessa appellante, pag. 5, e quella della Stazione appaltante a pag. 46): dato, questo, che non può che prevalere su quello, solo presuntivo ed astratto, della misura forfetaria del 10 % sulla quale l’appellante ha invece calibrato la propria domanda.
Il criterio di liquidazione forfetario del lucro cessante nella misura del 10 % , che si ricollega all'art. 345, l. n. 2248 del 1865 All. F., dovrebbe del resto essere desunto da disposizioni in tema di lavori pubblici che riguardano, tuttavia, altri istituti, come l'indennizzo dell'appaltatore nel caso di recesso dell'Amministrazione committente, o la determinazione del prezzo a base d'asta.
Il relativo riferimento, inoltre, conduce di solito all’abnorme risultato che il risarcimento dei danni sarebbe, per l'imprenditore, più favorevole dell'impiego del capitale. Con il che si creerebbe la distorsione per cui il soggetto ricorrente non avrebbe più interesse a provare in modo puntuale il danno subìto, poiché presumibilmente per tal via otterrebbe meno di quanto la liquidazione forfetaria gli consentirebbe (CDS, V, n. 2967\2008; VI, 21 maggio 2009 n. 3144).
La tecnica di quantificazione del danno in discorso, pertanto, pur se in una prima fase è stata indubbiamente impiegata nella pratica, dalla più recente giurisprudenza di questo Consiglio è stata messa profondamente in discussione (V, n. 2967 del 2008; VI, n. 3144 del 2009; n. 8646 del 2010), affermandosi in sua vece l’onere dell'impresa di una prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto (Cons. Stato, V, 6 aprile 2009, n. 2143; 17 ottobre 2008, n. 5098; 5 aprile 2005, n. 1563; VI, 4 aprile 2003, n. 478).
A conforto di tale ultimo indirizzo è recentemente giunta, infine, l’espressa previsione contenuta nell'art. 124 del Codice del processo amministrativo, a tenore del quale "se il giudice non dichiara l'inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente subìto", a condizione, tuttavia, che lo stesso sia stato "provato".
Per le ragioni esposte, la Sezione nel caso di specie non può che considerare decisiva la previsione di utile indicata dalla stessa RICORRENTE, in sede di offerta di gara, nella misura del 4 % , nessuna prova essendo stata fornita dall’avente diritto in merito ad un proprio utile eccedente la sua stessa indicazione.
Al riconoscimento indicato deve aggiungersi l’ulteriore voce costituita dal danno curricolare.
L’esistenza di tale componente di danno può essere pragmaticamente ritenuta in re ipsa, in una certa contenuta misura, in quanto insita nel fatto stesso dell’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’appalto in controversia nell’ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare. Il soggetto economico non può dirsi gravato, a questo proposito, da alcun particolare onere probatorio, che condizionerebbe soltanto l’accesso per la stessa voce ad un risarcimento più elevato.
Sono ormai diverse, del resto, le recenti decisioni di questo Consiglio secondo le quali non sarebbe indispensabile uno specifico supporto probatorio per l’ottenimento di ogni forma di riconoscimento a titolo di danno curricolare (cfr. le decisioni della Sezione n. 3966 del 6 luglio 2012, n. 661 del 7 febbraio 2012 e n. 2546 del 3 maggio 2012, nonché la n. 8253 del 27 novembre 2010 della Sez. IV).
Nella fattispecie può pertanto equitativamente riconoscersi un pregiudizio a titolo di danno curricolare commisurato al 2 % del valore dell’appalto.
3e Alla ricorrente non può invece attribuirsi alcuna forma di rimborso delle spese di partecipazione alla gara.
La giurisprudenza sullo specifico tema ha difatti recentemente osservato quanto segue. “Nel riconoscimento del danno da mancata aggiudicazione, se viene attribuito il ristoro del danno da mancato utile, viene escluso il danno relativo alle spese subite, in quanto nelle pubbliche gare di appalto all’aggiudicatario non viene riconosciuto il rimborso delle spese sostenute per la gara, implicitamente assorbite dal compenso per l’esecuzione dell’appalto. E, invero, nella somma liquidata a titolo di ristoro dell’utile di impresa perduto, è già ricompresa la remunerazione del capitale impiegato per la partecipazione alla gara; si evitano in tal modo ingiustificate locupletazioni derivanti dalla medesima partita di danno (Cons. giust. sic., 22 giugno 2006 n. 315; Cons. St., sez. V, 13 giugno 2008 n. 2967). Sicché, se in luogo dell’aggiudicazione si consegue il danno da mancato utile, parallelamente non spetta il danno per le spese di gara” (VI, 11 gennaio 2010, n. 20; nello stesso senso v. anche, ad es., la n. 5168 del 16 settembre 2011, nonché la n. 3966 del 6 luglio 2012 della Sezione).
Tantomeno la RICORRENTE potrebbe ottenere a titolo risarcitorio il richiesto rimborso delle spese legali, per il recupero delle quali vale il ben diverso e specifico regime dettato dal Codice di rito all’art. 26.
In conclusione, si precisa che le percentuali sopra indicate (4 % e 2%) dovranno essere riferite al valore dell’appalto così come rideterminato alla luce dell’offerta di gara dell’appellante, rammentandosi infine che l’ammontare complessivo scaturente dall’applicazione delle due percentuali andrà dimezzato per il motivo visto al paragrafo 2a.
a cura di Sonia Lazzini
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