Va innanzi tutto rilevato che – come osservato dalla Sezione III civile della Corte di Cassazione (sentenza 7 febbraio 2005 n. 2416) – la figura del broker (per come tratteggiata dall’art. 1 della legge 792/1984) “è il risultato di un compromesso mal riuscito tra le qualificazioni giuridiche prevalenti: quella di prestatore di opera intellettuale di matrice prettamente dottrinale e quella di mediatore che, condivisa o meno dalla scarna giurisprudenza di questa Corte … ne rappresenta il presupposto di fondo”.
Nell’osservare come la Suprema Corte abbia avuto occasione di occuparsi specificamente della tematica del brokeraggio dopo l'entrata in vigore della citata legge 792/1984 (sentenze 26 agosto 1998 n. 8467 e 6 maggio 2003 n. 6874), prosegue la pronunzia in rassegna rilevando che “l’attività di mediazione costituisce dato ineliminabile della figura del broker e rappresenta termine di riferimento obbligatorio di ogni ricostruzione sistematica”: con la conclusione che, “allo stato della legislazione il broker di assicurazioni svolge attività mediatizia in forma di impresa commerciale, sia pure connotata da profili di intellettualità”.
Da tale principio è lecito inferire che il complesso prestazionale richiesto al broker nel contatto professionale dal medesimo intrattenuto con la clientela, non si sostanzia nel mero ed esclusivo esercizio di un’attività mediatizia preordinata alla stipula di contratti di assicurazione; ma, piuttosto, si rivela – ulteriormente, ma imprescindibilmente – qualificato dallo svolgimento di un’attività consulenziale/assistenziale in favore del contraente circa la congruità dello strumento assicurativo rispetto alle esigenze da quest’ultimo evidenziate e, conseguentemente, in ordine alla idoneità della allocazione delle disponibilità finanziarie del medesimo cliente nel quadro dello stipulando programma assicurativo
tratto da Tar Lazio, Roma con la sentenza numero 885 del 31 gennaio 2011
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