mercoledì 1 giugno 2011

Colpa della pa, risarcimento per equivalente e obbligo di provare l’esistenza del danno

L’elemento soggettivo della colpa è chiaramente ravvisabile nell’inosservanza delle regole che la stessa stazione appaltante si era data; inosservanza che, oltretutto, si è tradotta pure nella violazione del principio della par condicio tra i concorrenti.
Peraltro, non può farsi luogo alla reintegrazione in forma specifica, dal momento che gli accennati contratti annuali hanno avuto termine il 6 aprile 2011, come dichiarato in questa sede dalla ricorrente, evidentemente in quanto non rinnovati per un periodo di dodici mesi come pure consentiva l’art. 7 del capitolato speciale. Pertanto il risarcimento va disposto per equivalente.


Con riguardo alla sua determinazione, si osserva che non possono essere prese in considerazione a titolo di danno emergente le spese di partecipazione, le quali sarebbero restate a carico della concorrente anche in caso di aggiudicazione; compete invece, a titolo di lucro cessante, l’utile che l’a.t.i. avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria, la cui prova deve desumersi dall’importo (€ 37.600,00 annui) all’uopo indicato complessivamente nel “dettaglio della struttura” dell’offerta economica richiesta dall’art. 3 delle “norme di partecipazione”, ovviamente in misura proporzionale al periodo di esecuzione dei singoli contratti.

Quanto ad un autonomo pregiudizio per perdita di chance, va ricordato che, come chiarito dalla giurisprudenza, esso consiste in un danno patrimoniale relativo alla perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo secondo una valutazione ex ante collegata al momento in cui il comportamento illegittimo ha inciso su tale possibilità; pertanto si configura come danno attuale e risarcibile, sempreché ne sia provata la sussistenza anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, sicché alla mancanza di tale prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., infatti diretta a fronteggiare l’impossibilità di provare non l’esistenza del danno risarcibile, bensì del suo esatto ammontare.

In altri termini, la perdita di chance di rilievo risarcitorio, in quanto entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione e non mera aspettativa di fatto o generiche ed astratte aspirazioni di lucro, deve correlarsi a dati reali, senza i quali risulta impossibile il calcolo percentuale di possibilità delle concrete occasioni di conseguire un determinato bene, e che dunque il danneggiato ha l’onere di fornire (cfr. Cons. St., Sez. IV, 27 novembre 2010 n. 8253).

Nella specie, parte appellante non solo nulla ha provato, ma neppure nulla ha precisato al riguardo, neanche in ordine agli elementi che comporrebbero tale voce, limitandosi a rappresentare di aver sofferto, oltre a danni diretti sotto forma dei costi sostenuti e dei mancati introiti realizzati, un danno “indiretto, derivante dalla perdita di future chance”, ossia ha formulato una domanda del tutto generica e, pertanto, già di per sé inammissibile.

In conclusione, l’istanza risarcitoria va accolta limitatamente alla predetta quota di utile, che, consistendo in un debito di valore, va incrementata per rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla data di notificazione del ricorso al TAR all’effettivo soddisfo.

tratto dalla decisione numero 3278 del 31 maggio 2011 pronunciata dal Consiglio di stato

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