Questo Collegio ritiene opportuno trasmettere, a cura della Segreteria, copia del fascicolo d’ufficio e della presente sentenza alla Procura Regionale della Corte dei Conti per la Puglia in Bari per eventuali iniziative di propria competenza relativa alla condanna del Comune al risarcimento del danno per 26.392,39 euro.
Nel caso di specie, sicuramente sono integrati gli estremi della lesione (i.e. ingiustizia del danno ex art. 2043 cod. civ.) della situazione soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento facente capo alla società ricorrente (i.e. aggiudicazione dei lavori per cui è causa in proprio favore laddove fosse stata esclusa la Cosver ),
della sussistenza dell’elemento oggettivo (adozione degli atti di gara che questo Collegio ha accertato essere illegittimi nei termini esposti in precedenza),
dell’elemento soggettivo dell’Amministrazione resistente (che ha adottato provvedimenti illegittimi, così violando regole di buona amministrazione e prudente apprezzamento)
e del nesso causale tra l’illecito e il danno subito (è evidente che l’azione amministrativa illegittima è causativa, secondo l’id quod plerumque accidit, di un pregiudizio alla sfera della odierna ricorrente che sarebbe dovuta essere aggiudicataria dell’appalto).
Peraltro, sul punto della prova dell’elemento psicologico dell’illecito aquiliano della P.A. Cons. Stato, Sez. VI, 13 febbraio 2009, n. 775 ha evidenziato che:
«…, in presenza di un’attività illegittima posta in essere dall’Amministrazione e foriera di danno per il privato, quest’ultimo non sarà onerato di un particolare sforzo probatorio in ordine alla sussistenza di una condotta colposa da parte dell’Amministrazione, ben potendosi limitare ad allegare la sola illegittimità del provvedimento quale elemento idoneo a fondare una presunzione (semplice) circa la colpa della P.A.
In tali ipotesi, spetterà quindi all’Amministrazione fornire la prova liberatoria a contrario, dimostrando in concreto che si sia trattato di un errore scusabile, configurabile - ad es. - in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma, di formulazioni polisense di disposizioni di recente emanazione, ovvero di rilevante complessità del fatto sotteso alla determinazione amministrativa.».
Nella fattispecie oggetto del presente giudizio l’Amministrazione evocata in giudizio non ha fornito la prova liberatoria dell’assenza di colpa, né ha dimostrato la sussistenza in concreto di un errore scusabile.
Va, altresì, rimarcato che l’accertamento in sede giurisdizionale del carattere “non iure” dell’attività amministrativa posta in essere dalla stazione appaltante con consequenziale lesione dell’interesse legittimo dell’odierna ricorrente implica la consolidazione di un danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ. nella sfera giuridica della stessa. In altri termini, la riscontrata illegittimità dell’azione amministrativa rappresenta l’indice della colpa dell’Amministrazione convenuta.
In tale eventualità spettava, pertanto, alla parte resistente fornire elementi istruttori o anche meramente assertori volti a dimostrare l’assenza di colpa, parte resistente che all’opposto è rimasta inerte sul punto.
Passaggio tratto dalla sentenza numero 741 del 18 aprile 2012 pronunciata dal tar Puglia, Bari
Peraltro, deve essere evidenziato che, da ultimo, Corte Giust. CE, Sez. III, 30 settembre 2010, n. 314 ha ritenuto superfluo l’accertamento, ai fini della responsabilità della Amministrazione da provvedimento illegittimo, dell’elemento soggettivo della colpa: “La direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989 n. 89/665/Cee, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992 n. 92/50/Cee, deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale subordini il diritto a ottenere un risarcimento a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonché sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata.”.
Relativamente al profilo del quantum del danno da lucro cessante invocato da parte ricorrente, va evidenziato che secondo Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2010, n. 6485 “Agli effetti della quantificazione del danno per lucro cessante, che l’impresa partecipante a gara pubblica assume di aver ingiustamente sofferto per effetto dell’illegittima mancata aggiudicazione dell’appalto, occorre che essa fornisca la prova rigorosa della percentuale d’utile che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria, prova desumibile dall’esibizione dell’offerta economica da essa presentata al seggio di gara, non costituendo il criterio del 10% del prezzo a base d’asta un criterio automatico, ma solo presuntivo.”.
La deducente RICORRENTE ha prodotto in allegato al ricorso introduttivo la propria offerta economica con un ribasso del 24,691% così assolvendo il proprio onere probatorio sul punto.
Tuttavia, come rilevato da Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751, “Il lucro cessante da mancata aggiudicazione può essere risarcito per intero se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile. Si tratta di una applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell’illecito, va detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio, quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione. Tuttavia, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum grava non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili.”.
Poiché, nel caso di specie la dimostrazione dell’assenza dell’aliunde perceptum non è stata offerta dalla società ricorrente su cui gravava il relativo onere probatorio, è da opinare nel senso che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi lavori, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità.
Ritiene, pertanto, il Collegio, alla stregua delle considerazioni sopra esposte, di determinare l’ammontare della somma spettante alla società RICORRENTE, a titolo di lucro cessante, nel 10% dell’importo dell’offerta economica da quest’ultima presentata.
Tale somma, secondo quanto indicato in precedenza, va ridotta in via prudenziale al 5% dell’offerta economica, tenendo conto dell’aliunde perceptum dell’impresa.
Invero, secondo Cons. Stato, Sez. VI, 19 aprile 2011, n. 2427, “Non costituisce, normalmente e salvi casi particolari, condotta ragionevole immobilizzare tutti i mezzi di impresa nelle more del giudizio, nell’attesa dell’aggiudicazione in proprio favore, essendo invece ragionevole che l’impresa si attivi per svolgere altre attività. Di qui la piena ragionevolezza della detrazione dal risarcimento del mancato utile, nella misura del 50%, sia dell’aliunde perceptum sia dell’aliunde percipiendum con l’originaria diligenza.”.
Considerato che l’offerta economica presentata dalla ricorrente risulta pari ad €. 527.847,74 (a fronte del formulato ribasso del 24,691% sull’importo a base d’asta, a sua volta pari ad €. 700.909,24), la somma da liquidarsi a titolo di lucro cessante è pari ad €. 26.392,39 (5% di €. 527.847,74).
Ciò premesso, la complessiva somma di €. 26.392,39 riconosciuta alla RICORRENTE a titolo di risarcimento del danno da illecito aquiliano della P.A. (lucro cessante), trattandosi di debito di valore, va rivalutata anno per anno secondo gli indici ISTAT con decorrenza dalla data dell’illecito (i.e. momento storico [27 aprile 2009] dell’aggiudicazione definitiva), oltre interessi legali sulla somma non rivalutata, oltre gli interessi legali sugli importi annui della svalutazione, dalla relativa maturazione (cioè dalla scadenza di ogni anno successivo alla consumazione dell’illecito secondo il cosiddetto criterio “a scalare” individuato dalla Suprema Corte con la sentenza a Sezioni Unite n. 1712/1995).
Sul punto recentemente Cass. civ., Sez. I, 4 febbraio 2010, n. 2602 ha riaffermato la permanente validità del principio del riconoscimento d’ufficio della rivalutazione monetaria nonché degli interessi legali sulla somma rivalutata e dei criteri enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1712 del 1995 in tema di computo di rivalutazione ed interessi nelle obbligazioni di valore quali quelle derivanti - come nel caso di specie - da fatto illecito: “Il credito da occupazione appropriativa, trovando origine in un fatto illecito della p.a. ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., costituisce una obbligazione di valore su cui devono riconoscersi d’ufficio la rivalutazione monetaria nonché gli interessi legali sulla somma rivalutata, da calcolarsi secondo i criteri enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1712 del 1995.”.
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